La prima mensa dell’eucaristia
Si segnala la necessità di ridare maggiore dignità alla parola di Dio nella celebrazione liturgica, e a 50 anni dal concilio Vaticano II Papa Francesco propone alla Chiesa una festa liturgica per celebrare la parola di Dio. Così è lecito attendersi un nuovo impulso alla vita spirituale dei fedeli.
Papa Francesco ci esorta a ritrovare e riscoprire con amore e creatività la parola di Dio, quale nutrimento fecondo e necessario alla vita cristiana, riproponendo in maniera creativa nell’oggi quanto il Vaticano II afferma con chiarezza: «La Chiesa ha sempre venerato le divine Scritture come ha fatto per il Corpo stesso di Cristo, non mancando mai, soprattutto nella sacra liturgia, di nutrirsi del pane di vita dalla mensa sia della parola di Dio che del Corpo di Cristo, e di porgerlo ai fedeli» (Dei Verbum 21).
L’immagine della Parola come nutrimento accompagna peraltro la stessa esperienza del popolo d’Israele. Il privarsene fa esclamare al Libro delle Lamentazioni: «I bambini chiedevano il pane e non c’era chi lo spezzasse loro» (4,4). D’altronde i commentatori della Torah hanno spesso interpretato la carestia come un tempo in cui Israele non ha saputo nutrirsi della parola di Dio.
Non a caso, al ritorno dall’esilio babilonese, il ritrovamento dei rotoli della Legge fra le rovine del tempio di Gerusalemme dà origine alla solenne liturgia della Parola da parte di Esdra, primo atto di culto nella libertà ritrovata. Il Libro viene proclamato in un luogo simbolico e adeguato (una tribuna di legno costruita per l’occorrenza), in alto perché sia visibile oltre che udibile a tutti. La sua lettura è pubblica e comunitaria, spiegata “a brani distinti” per comprenderne meglio il senso; il popolo ascolta in piedi in segno di rispetto e infine riceve l’invito alla festa perché «questo giorno è consacrato al Signore». È la stessa lettura pubblica della Legge a consacrare il tempo al Signore e a convocare il popolo. Altro segno di questa consacrazione è la condivisione festiva del cibo, le cui porzioni vanno inviate anche «a coloro che nulla hanno di preparato», cioè ai poveri.
La tradizione liturgica
Come non ravvisare in questa narrazione gli elementi di quella liturgia della Parola che da sempre accompagna anche la tradizione liturgica della Chiesa? Essa è forse la testimonianza più antica che lega la liturgia sinagogale alla primitiva tradizione cristiana. Ancora oggi la lettura della Torah nella sinagoga viene accompagnata ritualmente da una processione che porta i rotoli rivestiti e ornati regalmente, dal tabernacolo che li contiene fino alla tribuna centrale dalla quale vengono proclamate le letture. L’assemblea si alza in piedi e accompagna il loro incedere avvicinandosi e baciandoli o toccandoli con i lembi dei tallith. Un segno di affetto e venerazione per i rotoli, venerati come una persona. Inoltre, in un giorno particolarmente solenne dell’anno si celebra la festa di Simchat Torah (la gioia della Torah), in cui si ricorda il dono della Parola.
Anche per i Padri della Chiesa, la Bibbia ha una capacità intrinseca di creare un’assemblea (ekklesia), plasmare e orientare la fede dei fedeli, e per questo sottolineano il valore della liturgia della Parola nel contesto della celebrazione. Per Agostino l’assemblea è un elemento costitutivo della celebrazione cristiana, assieme alla lettura liturgica della parola di Dio e alla predicazione. La loro mutua connessione forma la partecipazione attiva del popolo di Dio, e suscita, mediante l’ascolto, l’assenso della fede.
La Parola è testo vivo che, come ricorda il libro dell’Apocalisse, deve essere mangiato (10,9-10). E per questa Parola si può dare la vita: la tradizione della Chiesa ha onorato i martiri della liturgia e i martiri della Parola. Non si considera mai abbastanza, ad esempio, come i martiri di Abitene, uccisi sotto Diocleziano per essersi riuniti nella celebrazione domenicale della liturgia, svolgano la loro riunione proprio nella casa di Emerito, il lettore, il quale custodiva le Sacre Scritture. Dopo aver affermato: «Sine dominicus non possumus», viene incalzato dal proconsole: «Hai le scritture in casa tua?». Rispose: «Ho le scritture nel mio cuore». Il proconsole: «Ma in casa tua le conservi o no?». Il martire Emerito: «Le conservo nel mio cuore». Il cronista sottolinea: «Per non distruggere le scritture del Signore (Scripturas dominicas) le conservava nel segreto del suo petto».
La Chiesa antica conosce i martiri di Abitene quali martiri della liturgia e li associa ai martiri della Numidia: «Nella medesima persecuzione sono compresi quanti, non volendo consegnare i libri delle divine scritture secondo l’ordine dell’imperatore, furono esposti a durissimi supplizi e anche uccisi» (Martirologio romano). Non è solo memoria del passato. Il confessore della fede Nicu Steihnardt, ortodosso imprigionato nelle carceri romene durante il regime comunista, divise l’unica Bibbia perché le sue pagine potessero essere imparate a memoria dai prigionieri, e potessero nutrire la loro fede e la loro resistenza. In tempi recenti gli evangeliari e i libri liturgici di fratelli copti in Egitto, anglicani e cattolici in Pakistan o in Nigeria, e in molte altre regioni del mondo, sono stati bagnati dal loro stesso sangue. Martiri della domenica che non hanno rinunciato al nutrimento della Parola e del corpo di Cristo, a costo della loro stessa vita.
Forse possiamo lasciar risuonare l’invito di Cesario di Arles, che ammoniva i suoi fedeli: «Vi pongo una domanda, fratelli e sorelle, ditemi cosa ha più valore secondo voi: la parola di Dio o il corpo di Cristo? […] La parola di Dio non vale meno del corpo di Cristo, e per questo tutta la cura che osserviamo mentre ci viene dato il corpo di Cristo, affinché nessun frammento cada a terra dalle nostremani, questa stessa cura osserviamo affinché la parola di Dio che ci viene dispensata non si perda […] perché chi avrà ascoltato con negligenza la parola di Dio non è meno colpevole di colui che con la stessa negligenza avrà permesso che il corpo di Cristo cada a terra» (Omelia 78,2).
Di questa consapevolezza si trova traccia nella stessa Sacrosanctum Concilium, secondo la quale Cristo è presente nella Parola celebrata, mentre nella Istituzione generale del Messale romano (IGMR) tale presenza viene così esplicitata: «Nelle letture, che vengono poi spiegate nell’omelia, Dio parla al suo popolo (SC 33), gli manifesta il mistero della redenzione e della salvezza e offre un nutrimento spirituale; Cristo stesso è presente, per mezzo della sua Parola, tra i fedeli».
Ridare dignità alla Parola
Anche l’Oriente cristiano conosce e sottolinea il valore della Parola, accanto a quello delle specie consacrate, evidente nel parallelismo fra il piccolo ingresso (processione liturgica della Parola nel rito bizantino) e in quella dei doni (grande ingresso). Il punto di arrivo di queste processioni non è lo stesso: la prima si conclude presso la sede del presbiterio, la seconda procede fino all’altare dove si celebrerà il sacrificio eucaristico. Nel rito siriaco, questa distinzione aveva una sua utilità pratica, poiché la sede episcopale e del clero non si trova all’interno nel santuario, ma accanto al bema, luogo della proclamazione della Parola, posto al centro della navata. Mentre quindi la prima processione si fermava nella navata centrale, la seconda, quella dei doni, risaliva tutta la navata per entrare nel santuario. In entrambi i casi sia la Parola che i doni, provengono dal santuario, dietro l’iconostasi, per attraversare l’assemblea. Nicola Cabasilas scrive nel suo Commento della divina liturgia: «Il sacerdote, stando di fronte all’altare, alza l’Evangeliario e lo mostra ai fedeli, simboleggiando così la manifestazione del Salvatore, avvenuta quando cominciò ad apparire alle folle, il Vangelo infatti rappresenta Cristo».
E Gogol nelle sue meditazioni sulla liturgia bizantina, aggiunge: «L’assemblea vede nel Vangelo portato in processione dalle mani di umili ministri della Chiesa, il Salvatore. Il diacono, procedendo verso l’altare, si ferma sulla soglia del santuario e alzando l’Evangeliario, esclama: Sapienza!, indicando nel Vangelo del Verbo di Dio, il Figlio, Sapienza eterna parlata al mondo con il Vangelo. E aggiunge: State attenti, cioè, svegliatevi, e l’assemblea in piedi, elevando lo spirito, si unisce al coro dei cantori: Venite adoriamo prosterniamoci davanti al Cristo».
Sono suggestioni che richiamano anche la Chiesa latina alla devozione per la parola di Dio incrementata dalla liturgia e auspicata dal concilio Vaticano II, ma forse ancora non del tutto recepita in maniera larga e popolare. In questa luce anche l’esortazione apostolica postsinodale Verbum Domini, ha segnalato la necessità di ridare maggiore dignità alla parola di Dio nella celebrazione liturgica, e all’indomani del Giubileo della misericordia, a poco più di 50 anni dal concilio Vaticano II, Papa Francesco propone quindi alla Chiesa una festa liturgica per celebrare la parola di Dio. Tutto ciò in sintonia piena con lo spirito della Dei Verbum: «Come dall’assidua frequenza del mistero eucaristico si accresce la vita della Chiesa, così è lecito sperare nuovo impulso alla vita spirituale dall’accresciuta venerazione per la parola di Dio, che “permane in eterno” (Is 40,8; 1Pt 1,23-25)» (DV 26).
Marco Gnavi
Comunità di Sant’Egidio; parroco di Santa Maria in Trastevere, Roma