Non una “predica” noiosa

Pregare, studiare, amare: questi tre verbi proposti da Paolo VI sono determinanti nel preparare l’omelia perché non sia una predica noiosa, insoddisfacente e ripetitiva per gli ascoltatori e aiutino a sognare una predicazione che apra il credente e la comunità all’atto della fede.

Nella lettera conclusiva dell’anno giubilare, Papa Francesco ha proposto di dedicare una domenica, lungo l’anno liturgico, alla riscoperta della Sacra Scrittura, mettendo un forte accento sull’omelia, croce e delizia della celebrazione eucaristica (cf Misericordia et misera, 6).
È nota a tutti la profonda sintonia di Papa Francesco con Paolo VI. Mi sembra bello parlare dell’omelia (a cui Papa Francesco dedica una sezione bellissima di Evangelii gaudium, 135-159), riprendendo un appunto lapidario, scritto su un block notes, attribuibile al 1969, dove il grande papa del Concilio verga poche note sul tema della predicazione. Attorno a tre verbi: pregare, studiare, amare, Paolo VI delinea la triplice attenzione dell’homilein, cioè del colloquio tra Dio e l’uomo, che l’annuncio della Parola può e deve rendere possibile nella liturgia eucaristica e come momento dell’azione rituale.
Nella loro semplicità, i tre verbi proposti piacerebbero molto a Papa Francesco: pregare, la fede del predicatore; studiare, l’attenzione al mistero santo di Dio; amare, la scelta dell’interlocutore. Nell’appunto di Paolo VI, manca un accenno ai molteplici modi dell’annuncio della fede, con la differenza tra predicazione, catechesi e le altre forme di comunicazione (lectio divina, gruppi di ascolto, primo annuncio, discernimento, accompagnamento personale, ecc.). Ma basta questo folgorante appunto per dire l’importanza dell’omelia e intravedere un percorso che fa sognare.
Inizio facendo un breve cenno alla difficoltà di questa specifica forma di annuncio, quella per la quale lo stesso termine “predica” ha un significato talvolta negativo: quando si dice “non fare la predica” o “(mi) ha fatto la predica”. Le difficoltà dell’omelia sono chiare anche agli stessi predicatori.
Voglio indicare i due difetti prevedibili: il primo è l’occasionalismo o il moralismo, dove il ricorso ai testi biblici è visto come l’occasione per parlare di molti temi, provocati per lo più dalle circostanze, senza lasciarsi ammaestrare dalla prospettiva radicalmente nuova dischiusa dalla parola di Dio; il secondo è il didascalismo, dove il riferimento ai testi biblici è visto come la possibilità di spiegare il testo, in tutti i suoi aspetti a volte complessi: si ottiene talora l’effetto di fare una dotta lezione o di accodarsi all’ultimo commento esegetico.
Per questo, l’atteggiamento medio dei credenti nei confronti della predicazione è quello della noia, dell’insoddisfazione, della ripetitività, difetti che non solo il predicatore sente contestati al suo modo di esporre, ma che egli stesso sperimenta nel fastidio e disagio di preparare la sua omelia. La critica al difetto della ripetitività, la lamentela che sono sempre le stesse cose, non coglie però tutta la verità. Anche il Vangelo è sempre lo stesso e, tuttavia, quando si danno determinate condizioni, suscita un’attesa o comunque crea attenzione.
Non è sempre vero che la ripetizione sia motivo di noia: per i bambini, ma anche per gli adulti, la familiarità delle immagini e del dramma è ciò che affascina (ad es. la musica, il varietà, gli incontri interpersonali, la parola). Ci sono parole che hanno solo la consistenza della notizia: la loro ripetizione diventa inutile e noiosa. Ci sono altre parole che hanno un’altra consistenza: non informano, ma danno a pensare, immaginare, sentire, interrogare, desiderare, sperare.
I tre atteggiamenti suggeriti dai verbi usati da Paolo VI (pregare, studiare, amare) ci aiutano a sognare una forma della predicazione che apra il credente e la comunità all’atto della fede. Li possiamo articolare nel modo seguente.

Studiare: l’attenzione al mistero santo
Prendo avvio dal secondo verbo (studiare) proposto da Paolo VI per un semplice motivo: perché chiede di interrogarsi subito sul senso della predicazione nel contesto dell’azione liturgica. Questo contesto determina la sua forma tipica, che in seguito può prolungarsi nella lectio divina o in altre forme simili. Paolo VI scrive: «Sapere bene ciò su cui si deve parlare; studiare la parola di Dio e la sua interpretazione teologica ortodossa; studiare le questioni umane alle quali la predicazione si rivolge; non deve essere empirica, approssimativa, impressionista e superficiale, anche se deve essere semplice e piana». Gli atteggiamenti che vengono suggeriti danno concretezza al verbo studiare: “sapere”, “studiare”, “comunicare”. Si tratta di dire la parola di Dio dentro i linguaggi umani, in modo che tali linguaggi siano il luogo di accesso alla “realtà” attestata dalla Parola.
La predica è connessa naturalmente con la celebrazione, è parte dell’azione liturgica e condivide con la liturgia il carattere di atto. A differenza della catechesi e della didascalia che mira a istruire, l’omelia mira a suscitare l’atto della fede, proprio nella celebrazione cultuale, come momento della liturgia della Parola. Lo studio, la preparazione e la comunicazione devono fin dall’inizio intendere tale “fine”: suscitare nel credente l’atto della fede.
L’omelia non mira immediatamente al sapere, non intende istruire il cristiano su ciò che potrà fare o sentire o capire a partire dalla predica ascoltata nei molti aspetti e momenti della vita. La predica mira all’atto di fede presente, anche se il suo effetto perdurerà al di là dell’atto, così come ogni momento celebrativo ha un’efficacia in rapporto agli atteggiamenti abituali dell’esistenza cristiana. Ciò appartiene alla natura della fede cristiana: essa è atto e atteggiamento; ma la fede è originariamente actus e solo di conseguenza è habitus. Perciò si può definire la fede un atteggiamento, solo in quanto dispiega e si alimenta all’atto della fede.
Se la predicazione mira all’atto di fede, da qui derivano alcune caratteristiche che Paolo VI non ricorda immediatamente, ma che appaiono nella sua concezione per così dire rigorosa della “preparazione” della omelia. Essa non deve essere pensata come spectaculum, non deve catturare l’attenzione in modo tale che l’interesse si soffermi sul come si parla o sull’inscenatura della parola detta, e che esaudisca la curiosità dell’uditore.
La predica deve rimandare l’attenzione al di là di sé, alla “realtà” stessa di cui si parla, al mistero santo di Dio, alla sua presenza attuale per il credente. La “realtà” di cui si parla non è un oggetto, ma la Presenza viva di Dio nel racconto della storia di Dio con l’uomo, nei cui confronti la libertà umana deve aprirsi e disporsi perché questa presenza si realizzi.
Da qui deriva anche lo stile dell’omelia. Rivolta all’atto di fede, la predica ha un carattere edificante, cioè deve proporsi il compito di “edificare” un senso che ha bisogno del con-senso dell’uditore per poter essere inteso. Il discorso “edificante” mira a sollevare lo spirito, non in modo consolatorio, ma nel senso di suscitare, svegliare, rincuorare, stimolare e tendere lo spirito.
Paolo VI, quando dice che la predica non deve essere “approssimativa, impressionistica e superficiale”, ci ricorda che essa deve rimandare nientemeno che al mistero santo di Dio, reso presente nel Vangelo di Gesù. Ciò accade facendo memoria di tutta la storia della salvezza che si compie nel Vangelo di Pasqua.

Pregare: la fede del predicatore
Ora è possibile riprendere il primo verbo che Paolo VI propone per raccomandare il clima in cui preparare la predicazione: pregare. Montini ricorda che la prima attenzione del predicatore rimanda al problema dell’atteggiamento interiore con cui prepararsi. Quando preparo l’omelia, non devo pormi anzitutto la seguente domanda: «Che cosa devo dire alla mia gente?», ma «Che cosa dice questa Parola alla mia fede, di credente prima che di predicatore?». La spiegazione di Paolo VI è folgorante: «Una preparazione interiore di fede, d’amore verso Dio, un’implorazione umile e fiduciosa nell’assistenza dello Spirito Santo “sermone ditans guttura”». È l’ascolto dello Spirito che fa “fiorire” (ditans) la parola quasi dal profondo del cuore (guttura), “arricchendo” la coscienza di fede del predicatore come credente e come orante.
Il predicatore deve considerarsi anzitutto come un credente o anche un incredulo che cerca di trovar rimedio alla propria incredulità. Non vale qui l’obiezione che la predica scadrebbe in autobiografia o non esprimerebbe il carattere ufficiale della fede. O che, ancora, non corrisponde alla preoccupazione della “nostra gente”. Questo stereotipo consacra necessariamente un’immagine mediocre del predicatore. Ma quest’immagine, nel predicatore e nella gente, non è tutto: è una maschera, una difesa. Così l’omelia sarà o noiosa o didattica o infantilizzante, magari anche divertente, ma non vera: perché rappresenta le certezze medie e non apre al mistero di Dio. Senza il momento incandescente della fede del predicatore, la predica non riesce a far accadere l’incontro vivo e bruciante con la Parola.
Il predicatore deve anzitutto ripetere il suo atto di fede di fronte alla Parola evangelica, cimentandosi con gli ostacoli che egli stesso trova: la familiarità scontata del testo (lo conosco già oppure lo predico da molti anni); la sua distanza dall’oggi (non tocca i nostri problemi); ma soprattutto la fuga dinanzi a Dio che chiama qui e ora (la meditazione sapienziale). L’atteggiamento orante e amante sono il rimedio a questa facile scappatoia, perché la persuasione dello Spirito rende luminoso e trasparente l’ascolto del credente/predicatore.

Amare: la scelta dell’interlocutore
Di qui il terzo verbo usato da Paolo VI: amare. Esso descrive in modo appassionato la preoccupazione dell’annuncio di Montini, di cui darà una splendida illustrazione pochi anni dopo nell’Evangelii nuntiandi, uno dei testi memorabili del postconcilio. Dice il Papa con un’espressione di vera tenerezza: «Occorre avere nell’animo un vero interesse per il bene di coloro ai quali si parla, una simpatia, un affetto, una carità». Questo è il vero Paolo VI, purtroppo rimasto nascosto alle stucchevoli caricature del tempo. Un Papa amante non solo dell’uomo moderno, ma degli uomini in carne ed ossa, con tanto di attenzione al bene e, ancor più, con la simpatia, l’affetto e la carità!
Paolo VI allora ci dice che il predicatore deve avere prossimi quelli a cui si rivolge. È generico e retorico riferirsi a un fantomatico “uomo moderno”: il discorso non si volge ai luoghi comuni, ma alle persone vive. Ma come ci si rivolge alle persone vive, troppo spesso diverse e diversamente presenti al predicatore? Non si può operare una sorta di media statistica delle persone vive. Forse la parola più universale è quella detta a una persona sola, forse neppure presente, ma viva dinanzi alla coscienza del predicatore con i suoi interrogativi e le sue certezze, con i suoi desideri e i suoi timori. Bisogna immaginare una sorta di “persona tipo”, più che una persona media (così accade, ad es., nei testi biblici dove i personaggi sono spesso attualizzazione di atteggiamenti evangelici: cf Zaccheo, il fariseo, il fratello maggiore).
Bisogna, dunque, raccomandare questo tipo di familiarità con l’uditore. Nel momento in cui elaboro l’omelia, occorre immaginarsi questa o quell’altra persona a cui vorrei dire il messaggio che io stesso ho ascoltato dalla pagina biblica e che ha inquietato me per primo. Con un po’ di buon senso, però, senza scadere nell’oscurità o nel biografismo. Forse si può dare questa indicazione sintetica: dire il messaggio universale del Vangelo attraverso la figura singolare di un credente.
Questo è il predicatore che emerge dal breve appunto di Paolo VI. Egli ci può rendere consapevoli del dono prezioso con cui ogni domenica migliaia di persone – nonostante tutto – varcano ancora la soglia delle chiese. In tutta Europa questa è ancora un’occasione da non perdere. Non ci si può permettere il lusso di sciupare questa grande opportunità: non tanto per catechizzare, istruire, moralizzare, dare consigli a buon mercato dalla regia ecclesiastica.
La posta in gioco è molto più alta. Si tratta nientemeno di far brillare dinanzi agli occhi e al cuore del credente lo splendore del mistero santo di Dio e la novità sconvolgente della vita cristiana. Ma questo passa attraverso la fede e l’azione del predicatore, il modo con cui egli celebra con la sua comunità, parla alla sua gente, vive con essa il giorno del Signore come credente, prima che come manager del sacro. L’omelia di Santa Marta di Papa Francesco non è forse la rappresentazione viva del triplice dinamismo del pregare, studiare, amare di Paolo VI? Bisognerebbe, però, che il Papa avesse più imitatori che ammiratori!

monsignor Franco G. Brambilla