Un colloquio tra Dio e l’uomo

La lettura della Sacra Scrittura dev’essere accompagnata dalla preghiera. È così che può svolgersi il colloquio tra Dio e l’uomo. Il momento della preghiera corrisponde all’attimo dello sconcerto davanti all’annuncio e all’orizzonte inatteso e impegnativo che la parola di Dio sempre apre.

Guigo il Certosino nella sua testimonianza sull’esperienza della lectio divina praticata, dopo aver approfondito le tappe della lettura e della meditazione, invita il lettore ad aprirsi alla preghiera. Essa «è un rivolgere il cuore a Dio con l’intenso desiderio di evitare il male e conseguire il bene» (1). Il momento della preghiera lungi dall’essere una stasi o una fuga è invece il punto di raccordo ineludibile per la realizzazione esistenziale di ciò che la parola di Dio racchiusa nelle Scritture ci fa intuire.

Intuire e, gradualmente, approfondire la logica propria dell’azione di Dio nella storia della salvezza per tutti gli uomini e per tutto l’uomo, apre al credente orizzonti di desiderio e campi di conversione. Così spiega Giovanni Cassiano: «Non sono cose che apprendiamo per sentito dire, ma di cui palpiamo, per così dire la realtà, per averne colto il senso profondo. Non abbiamo l’impressione di affidarle alla memoria, ma di partorirle dal profondo del cuore, come sentimenti naturali che fanno parte del nostro stesso essere. Non è la lettura che ce ne fa cogliere il senso, ma l’esperienza acquisita. Per questa strada l’anima giungerà alla purezza della preghiera» (Conferenze, X, 11).

In questi ultimi tempi con la rinnovata attenzione alla Bibbia si è corso il rischio di pensare che basti leggere e discutere sulle Scritture per vivere di esse. Non raramente una superficiale quanto gratuita contrapposizione della lectio divina alle pratiche di pietà di un tempo ha fatto smarrire la consapevolezza che l’una e le altre hanno il senso compiuto se aprono all’incontro con Dio nella preghiera. Bisogna avere l’umiltà di riconoscere con ammirazione il grande spirito di preghiera di quanti ci hanno preceduto nel cammino della fede e che rimane per noi un esempio e talora una meta.

Arrivare al terzo scalino della lectio non è facile poiché è proprio vero che «in generale l’uomo non prega volentieri. È facile che egli provi, nel pregare, un senso di noia, un imbarazzo, una ripugnanza, un’ostilità addirittura. Qualunque altra cosa gli sembra allora più attraente e più importante. Dice di non avere tempo, di avere altri impegni urgenti, ma appena ha tralasciato di pregare eccolo mettersi a fare le cose più inutili. L’uomo deve smettere di ingannare Dio e sé stesso. È molto meglio dire apertamente: “Non voglio pregare”, piuttosto che usare simili astuzie. È molto meglio non trincerarsi dietro giustificazioni come quella di essere troppo stanchi e dire chiaro e tondo: “Non ho voglia”. L’impressione che si riceve non è troppo bella e rivela tutta la meschinità dell’uomo; ma è verità, e partendo dalla verità si va molto più facilmente avanti che non partendo dalla dissimulazione(2)».

Ascolto e obbedienza

Per questo il Concilio, mentre invita i fedeli a praticare la lectio divina, non cessa di esortarli: «Si ricordino però che la lettura della Sacra Scrittura deve essere accompagnata dalla preghiera, affinché possa svolgersi il colloquio traDio e l’uomo: poiché gli parliamo quando preghiamo e lo ascoltiamoquando leggiamo gli oracoli divini (sant’Ambrogio)» (DV 25). La lectio divina ha una struttura dialogica analoga a ciò che avviene durante la celebrazione liturgica. Non va dimenticato che siamo anzitutto uditori della sua Parola e la lettura unitamente alla meditazione costituiscono un unico atteggiamento di ricezione oggettivamente chiara – lectio – e soggettivamente vera – meditatio – di questo rivolgersi a noi di Dio, ma che sarebbe come un dialogo incompiuto se non ci fosse da parte nostra una risposta.

Per sua natura questo rivolgersi di Dio all’uomo esige una risposta a tono che è, appunto, la preghiera come forma propria di amore e di obbedienza. Il momento della oratio coincide con il dramma di avvertire le conseguenze che la Parola ha sulla nostra vita concreta, sulle scelte e, ancora più profondamente, sui nostri affetti tanto da vivere personalmente la stessa esperienza del veggente di Patmos: «Presi quel piccolo libro dalla mano dell’angelo e lo divorai; in bocca lo sentii dolce come il miele, ma come l’ebbi inghiottito ne sentii nelle viscere tutta l’amarezza» (Ap 10,10). Il contatto con la Parola infatti non ci può lasciare come prima, ma mette a nudo la nostra povertà, il bisogno di Dio e del suo aiuto. In tal senso non esiste una preghiera malfatta se non in un solo caso, come spiega padre Hausher: «In definitiva, che cosa significa pregare male? Pregare contro la volontà di Dio così come la si conosce. E pregare contro la carità. Ogni altra preghiera è eccellente».

Amore e amaro della Parola

L’amore dolce che la Parola suscita nel cuore del credente non può mai essere separata dall’amaro dell’obbedienza che la Parola richiede nel suo essere «spada a doppio taglio che penetra fino al punto di divisione dell’anima e dello spirito, delle giunture e delle midolla e scruta i sentimenti e i pensieri del cuore» (Eb 4,12). Cosa può fare la creatura davanti all’abisso di tanto amore e all’esigenza di così tanta conversione se non pregare e continuare a pregare (Mt 26,39)? Dobbiamo riconoscere che non ci è facile prendere il tempo per sentire fino in fondo tutto questo nel nostro cuore. Dopo aver scelto un versetto, un’idea, un’intuizione, bisogna far sì che questa parola reagisca dentro di noi al cospetto di Dio dove siamo stupendamente e tremendamente soli e, perciò stesso, finalmente umani. Non bisogna avere paura di sentire il male che la Parola ci fa e talora la paura di ciò che essa ci chiede: l’essenziale è non fuggire facendo finta di non avere tempo o di avere qualcosa di più utile a cui dedicarci. Come insegnano i Padri, la preghiera è l’opera somma dell’uomo ed è la via regale per divenire veramente fratelli e solidali non a partire dalle nostre forze, ma a partire dalla coscienza della nostra debolezza. La preghiera ci fa passare serenamente dalla santità desiderata alla povertà offerta.

Per questo l’approccio alle Scritture proprio quando, attraverso la meditazione del testo, sembra aver manifestato tutta la sua ricchezza di messaggio e le sue implicanze per la vita quotidiana – sia a livello personale che in relazione agli altri – ha bisogno di un momento di interiorizzazione. Questo passaggio non è solo mentale e intellettuale, ma totale: bisogna farsi attraversare, compenetrare, radiografare dalla luce della Parola. Il momento della preghiera corrisponde proprio all’attimo dello sconcerto davanti all’annuncio e all’orizzonte inatteso e sempre impegnativo che la Parola apre. È ciò che la stessamadre del Signore, nel momento dell’annunciazione, esprime con la sua domanda: «Come è possibile?» (Lc 1,34).

Se infatti abbiamo letto il testo con attenzione e cura e lo abbiamo messo onestamente in relazione alla nostra vita quotidiana sottoponendo le grandi e piccole scelte al giudizio della Parola, non possiamo che ritrovarci senza parole e come profondamente segnati – talora persino feriti – da una sorta di indecisione e disorientamento. Cosa fare a questo punto? Tirarsi indietro come si fa abitualmente dopo aver letto un quotidiano che si richiude e si abbandona, esprimendo così il nostro reale disinteresse per tutte quelle cose che, pure, mostravamo di sentire come gravi e importanti? Oppure come si fa dopo un telegiornale o un reportage televisivo che ci indigna talmente da non lasciarci altro scampo se non quello di cambiare canale per distenderci fino a farci stordire dalla superficialità?

Ma c’è pure un’altra possibilità: quella di chiudere il Libro aprendo il cuore in tutta la sua ampiezza per metterci davanti a Dio con tutta la nostra povertà la cui unica ricchezza è proprio il desiderio. Come infatti amava dire Agostino: «Il tuo desiderio, questa è la tua preghiera; se continuo è il desiderio, continua è la preghiera»lo stesso padre e dottore indica appunto nel desiderio «la profondità del cuore»(4). Dopo aver lasciato che la Parola cada dentro di noi come seme buono e bello, dobbiamo acconsentire al suo processo di crescita perché divenga in noi il germoglio che promette il frutto. Questo germoglio di promessa è proprio la capacità e la volontà di ridare la parola a Dio usando le stesse parole che da lui abbiamo ricevuto.

Secondo il versetto del salmo, che è stato omesso dalla Liturgia delle ore dalla riforma post-conciliare, possiamo sempre dire: «Davanti a te sono [in] preghiera» (Sal 109,4). Se come dice padre Louf «siamo preghiera» con Agostino possiamo concludere che siamo «desiderio ». Allora non ci resta che seguire il consiglio di un Anonimo: «Scegli una parola, una piccola frase che esprima bene il tuo amore per Dio, e poi ripetila, ripetila con pace, senza cercare di formulare pensieri, senza muoverti, ridotto a un piccolo punto amante dinanzi a Dio-Amore. Allora – trasformata questa parola o questa frase in un dardo d’acciaio, simbolo del tuo amore – batti, batti contro la spessa nube dell’inconoscenza di Dio. Non distrarti qualunque cosa avvenga»(5)

MichaelDavide Semeraro
www.lavisitation.it

Note
(1) Guigo il Certosino, Lettera sulla vita contemplativa, II e VI.
(2) Guardini R., Introduzione alla preghiera, Morcelliana 1973, Brescia, p. 13.
(3) Agostino, Enarrationes in psalmos, 37, 14. 4Id., Trattato su Giovanni, XI, 19.
(4) Id. Trattato su Giovanni, XI, 19.
(5) Anonimo, La nube della non conoscenza, c. 6.