Una lettura sapienziale

Lo studio e l’approfondimento della parola di Dio può essere il modo perché il sapore dell’incontro con Dio non si perda. Lo studio consente pure di costruire la casa della fede sulla roccia. Le diverse iniziative delle diocesi e parrocchie sulla parola di Dio ridanno sapore alla vita e infondono speranza.

Studiare la parola di Dio – come dice il verbo latino studeo – amarla, saperla accogliere come presenza, farla vivere, assaporarla in noi è, oggi, la sfida educativa più alta. Appassionare, cioè mettersi in ascolto di un Dio che parla, si racconta, dice il vero e il buono che c’è in lui, in noi, nel mondo intero. Prendo due esempi sapienziali dal vangelo di Matteo per riflettere sul tema.

Lo dice bene Gesù, proprio all’inizio del suo primo discorso, nell’esempio del sale e della luce (Mt 5,13-16). Che cos’è la nostra vita? Un vivere nella luce. Che cosa rimane di ciò che siamo? Il sapore. Ma se la luce si spegne e il sale perde il suo sapore non servono a nulla. Fine del Vangelo. Fine dello studio. Fine della vita. La sapienza di un Dio che parla e il suo sapore autentico stanno nel dono di comprenderlo con strumenti e persone adeguate che possano farcelo gustare.

Se il sale perde sapore
La parola di Dio è come se ponesse davanti al nostro studio e approfondimento tre passaggi. Anzitutto la possibilità, vera, reale e tragica che il sale perda di sapore. È possibile che la fede, l’andare in Chiesa, il partecipare alle celebrazioni e poi ritornare in un contesto lavorativo, familiare, sociale, talvolta anche ecclesiale che non facilita la vita cristiana, sia una perdita di sapore. La nostra vita perde di significato o, per lo meno, Gesù ci mette in guardia che potrebbe succedere. Ma non perché il sale non sala più, ma perché il sapore che vuol dare, la forza che trasmette, il seme che viene gettato, incontra un’acqua così insipida e una terra così arida che non ci ricordiamo nemmeno dove andarli a riprendere. Se il sale perde sapore è utile solo per essere gettato, cioè dimenticato. Abbiamo purtroppo il grande potere di vanificare, con la nostra vita mediocre, la bellezza e la forza che provengono dal Vangelo. L’approfondimento può essere veramente il modo perché il sapore di quell’incontro col Dio che parla e accompagna non si perda.

Le iniziative delle nostre diocesi e parrocchie sulla parola di Dio ridanno sapore alla vita e infondono speranza. Gesù – è il secondo passaggio – in modo altamente sapienziale, paragona i credenti alla luce. Che meraviglia contemplarlo! Non è un desiderio: il modo indicativo con cui Gesù si esprime dice una realtà vera, presente, viva. Gesù costituisce i suoi discepoli “luce”, perché al loro posto, dove sono a vivere, secondo la vocazione e la missione ricevute, possano illuminare quelli che vivono dentro la casa. Insieme agli studi approfonditi serve un cuore docile che sappia ascoltare la Parola, le permetta di splendere nella propria vita, in quella della Chiesa e del mondo.

La lampada e la candela non “riempiono la testa” dei presenti con un trattato sull’opportunità di illuminazione. Fanno luce e basta. Apprendiamo la lezione e facciamola nostra, senza scappare sotto il letto, nascondere ciò che siamo perché fatichiamo ad illuminare o ci sembra che la nostra luce non sia sufficientemente apprezzata. La bellezza e il calore della fiamma valgono indipendentemente da quelli che gioiscono della sua luce. Continuiamo ad illuminare con quella carica che il Signore dona a ciascuno, senza dimenticare che quella Parola che fa luce va ascoltata con amore e vissuta con impegno.

La parola di Dio «si fa interprete delle nostre richieste e preoccupazioni e risposta feconda perché possiamo  sperimentare concretamente la sua vicinanza» (Misericordia et misera 6). Se studio e approfondisco la Parola questa, in modo creativo – perché lo Spirito che l’ha ispirata è lo stesso che accompagna la comunità – ci suggerirà le vie adatte per ridurre il buio di quella famiglia provata, la tristezza di quella giovane mamma che ha perso il bambino tanto desiderato e di quell’altra che, imbrogliata da coloro che le avevano detto di buttarlo via, perché era un suo diritto, ora non sanno più cosa dirle perché hanno a disposizione solamente parole che intristiscono.

La parola di Dio dà sapore e luce alla nostra vita, all’adolescente esteriormente euforico, ma dentro gli si è scatenato l’inferno o quel ragazzino che ha visto davanti ai suoi occhi la proposta di una violenza che ha rovinato la sua innocenza. Essere luce in mezzo alle tenebre è difficile, ma Gesù annuncia che è possibile. Non per mettersi sopra gli altri, ma al loro servizio. Perché, ed è il terzo dono, gli altri vedano le opere buone, capiscano che sono luce e dicano “grazie” a Dio, rendano “gloria” al Padre per i suoi figli e, come Gesù suo Figlio, non rendano male per male, ma vivano nella luce. Facciamo il bene perché l’ha fatto lui. Per far questo è necessario che la Parola sia ascoltata, compresa, amata e diventi, senza paura, traccia di vita. “Lampada per i passi” (Sal 119, 105).

Darci da fare per studiare-amare la Parola ci incoraggia a vivere come ha vissuto Gesù stesso che, dell’Antico Testamento, ha fatto la sua rotta e nell’ascolto costante del Padre e dello Spirito si è fatto guidare, passo passo. Il Signore può rendere la nostra esistenza così, luminosa e saporita. Non senza la nostra collaborazione.

Studiare costruisce
Gesù, con maggiore forza, racconterebbe ancora per noi, la parabola delle due case, una sulla sabbia, l’altra sulla roccia (Mt 7,24-27) per dire che l’ascolto, se vissuto, serve. Lo studio, se applicato, dà frutto. Anche la nuova Ratio per la formazione dei futuri presbiteri, riprendendo Gaudium et spes 44, ricorda che lo studio serve ed è orientato per «ascoltare attentamente, discernere e interpretare i vari linguaggi del nostro tempo e saperli giudicare alla luce della parola di Dio perché la verità rivelata sia capita sempre più a fondo, sia meglio compresa e possa venir presentata in forma più adatta».

Lo studio della parola di Dio è davvero ministeriale. È necessario sapere molto per rendere tutto più semplice e accessibile, mai banale, come ha fatto il Figlio di Dio. Sapeva, assaporava, studiava la Parola e la traduceva con semplicità ed efficacia. Ascoltare e approfondire, coi mezzi che ciascuno ha e si attrezza ad avere, oppure al contrario evitare di farlo, ci fa essere sul serio come quelle due case, una sulla sabbia, l’altra sulla roccia. Mai come oggi c’è bisogno di persone che resistano, non cadano, stiano in piedi. Non che ostentino ciò che vorrebbero essere, ma che dicano, con la vita, che “sudate si fanno” per educare i figli, quanta pazienza bisogna avere con un adolescente, come un figlio voglia così bene ai suoi genitori da soffrire per la loro separazione, come ci si possa aiutare per portare avanti l’annebbiamento della mente della nonna che ha perso tutti i suoi ricordi più cari e non riconosce più nessuno.

A questo serve ascoltare e comprendere la parola di Dio. La casa sulla roccia è una garanzia, soprattutto perché la pietra è già fatta dal Signore: la sua Parola da ascoltare, da custodire e mettere in pratica. La casa sulla roccia chiede fiducia a me che costruisco, vuole che io faccia la fatica di scavare, picconare e scendere per quelle fondamenta che non cadranno. Le due case non si confrontano sull’esteriorità, ma sul profondo. Non si paragonano sul colore dell’intonaco, ma sulla resistenza all’uragano che si scatena. È la casa sulla sabbia che spaventa, perché attrae e illude che è sufficiente appoggiarla sul terreno, abbellirla e venderla ed è tutto fatto. È la superficialità – anche mia, quando accosto il testo della Parola (al proposito si rileggano le indicazioni preziose del Papa in Evangelii gaudium 149-151) che deve far riflettere. “Dire due parole sul Vangelo” che non funziona. Perché non sono “parole nostre”, ma “di Dio”. E Dio parla sul serio. Parla in profondità perché la casa non cada.

Gesù spinge perché la fede non sia solo una questione di parole («Non chiunque mi dice: Signore, Signore», Mt 7,21), ma trovi una sua realizzazione concreta. Non che la teoria sia a scapito della pratica: è una contrapposizione moderna che nel vangelo non trova sede. Ogni parola del Signore è da vivere. Saperla, meditarla, “rigirarla”, come dicono i rabbini, cioè tenerla nel cuore, è il primo, irrinunciabile, passo. Ma non è sufficiente. Sapere che il pane è fragrante, ricordare il profumo del salame, desiderare di bere un bicchiere di vino, è ancora troppo poco per saziare fame e sete.

La Parola che ogni domenica Gesù rivolge deve trovare casa in noi. Gesù non dice mai che la sua Parola è facile. Dice che è necessaria. Amarla, studiarla, approfondirla significa non perdere il gusto, il sapore. Le fondamenta vanno costruite. Anche nella fatica. Quelle sono l’ascolto di ciò che Gesù dice, la sequela di ciò che Gesù fa, l’accoglienza di ciò che Gesù vuole.

Marco D’Agostino